IL MISTERO DI ROMA
CAPO XI
LE DOTI DI ROMA
A FORMARE L'UNITA' DEL MONDO
1. - Roma raggiunse il culmine della sua grandezza umana e compì la missione assegnatale da Dio, per la saggezza e costanza dei suoi senatori, dei suoi consoli, dei suoi tribuni, per il valore dei suoi legionari, per la giustizia e l'equità delle sue leggi. Perciò il detto di Tito Livio: «Operare e patire cose forti è romano» (Facere et pali fortia romanum est) [1]. E tutto ciò era il riflesso del costume severo e modesto sia pubblico che privato, che fiorì durante i secoli della repubblica. Perciò giustamente Livio fin dal proemio della sua storia romana scrive: «Non fu mai repubblica alcuna né più grande, né più santa, né più ricca di buoni esempi, ove entrassero tardi l'avarizia e la prodigalità, ed ove sì lungamente si onorasse la parsimonia e la povertà».
Alle affermazioni di questo storico patavino, fanno riscontro le lodi che S. Agostino, specialmente nel Libro V del De Civitate Dei, tributa alle virtù civiche e private dei romani, più solleciti del pubblico bene che del personale vantaggio; pronti a dar la vita per la prosperità dello stato e la custodia della libertà; amanti della disciplina, alieni dal lusso e dall'avarizia. In premio di queste loro virtù Dio concesse ai romani l'impero del mondo.
A vigilare sui costumi pubblici e privati vi era in Roma un apposito magistrato: il Censore, istituto che non si riscontra presso nessun altro popolo.
La sorgente che alimentava questa probità di vita nel popolo romano era l'istituto familiare, mirabilmente sorretto da un senso tradizionale di rettitudine, di rispetto, di affetto e fiducia reciproca. Di qui l'ammirabile definizione del matrimonio data dal Diritto Romano: «È l'unione dell'uomo e della donna nel consorzio di tutta la vita, e nella comunione del diritto umano e divino»[2]. Perciò poteva giustamente Cicerone affermare che il vincolo familiare era il principio della città e quasi il semenzaio dello Stato.
Ecco perché suscitò uno scandalo il primo divorzio, che si vide in Roma nel declino della repubblica.
2. - Ma il fulcro più potente della grandezza di Roma fu il senso religioso in tutte le attività politiche e sociali. Sono notevoli le parole che Cicerone pronunciò nel Senato nel 56 a.C.: «Dobbiamo riconoscere che noi non abbiamo superato gli Ispani per il numero, né i Galli per la fortezza, né i Cartaginesi per l'astuzia, né i Greci per le arti, né infine gli stessi Italici e Latini per quella sagacia che è familiare e congenita a questa stirpe; bensì superammo le genti e le nazioni per la pietà e la religione, per la sapienza di riconoscere che ogni cosa è retta e governata dalla provvidenza degli dei» [3]. Valerio Massimo scrive: «Roma non ha mai dimenticato che tutto passa in sottordine di fronte alla religione... Perciò volentieri le civili autorità si sottomettevano alle autorità delle cose sante, persuase che non potessero governare le vicende umane, se non alla condizione di un 'intera e costante sottomissione alla potenza divina».
Nelle monete romane spesso è rappresentata la pietas religiosa personificata.
3. - I consoli rivendicavano la pietas come fonte di diritto per esigere la sottomissione dei popoli e l' obbedienza dei sudditi. Persuasi del volere divino che Roma riducesse il mondo ad unità sotto le sue leggi, consideravano come un atto di sacrilega superbia fare opposizione al suo dominio. Di qui secondo Virgilio il destino di Roma a «debellare superbos». Tutti i grandi romani che hanno lavorato alla realtà di Roma, da Numa Pompilio a Cesare Augusto, hanno avuto coscienza di essere strumenti della divinità. Ognuno di essi è come dotato di ispirazione ad ubbidire ad un imperativo divino.
Ed è proprio questo senso religioso, come afferma anche un moderno storico tedesco [4], che ha dato alla romanità nel suo insieme un irresistibile impeto. Certo, considerata l'ignoranza del vero Dio, la spiritualità religiosa romana era ben modesta, però questa religiosità non era una mascherata ipocrita, od una gelida commedia, come ha immaginato il razionalismo storico del protestante Mommsen, che perciò ha eliminato dalle fonti stesse della storiografia romana gran parte della loro spirituale profondità.
4. - I Romani sentivano di agire quali esecutori d'un volere divino, e da questa obbedienza a una volontà superiore essi hanno attinto quella forza irresistibile, che ha creato la grandezza di Roma. Quando Virgilio manifesta al popolo romano la missione di unificare il mondo sotto il suo impero, non annunzia un privilegio di una politica e morale superiorità, ma un comando divino da eseguirsi con forte ed indomita volontà.
Con la persuasione di essere gli esecutori di un mandato superiore, i romani credevano ogni guerra un'opera di giustizia, ogni conquista un ossequio ai voleri divini; e perciò la religione era considerata come la ragione determinante, e per conseguenza la base e la forza della grandezza di Roma. A questo proposito suona solenne l'affermazione di Seneca: «Ubbidire a Dio è libertà»[5]. Sono scultorie le parole di Cinea, il legato inviato dal re Pirro a Roma per sollecitare la pace. Interrogato al suo ritorno, quale impressione avesse avuto di Roma, rispose: «La città mi è sembrata un tempio, ed il senato un'assemblea di re»[6].
5. - Non c'è quindi meraviglia che un tribuno della plebe, come riporta Tito Livio, arringando i soldati, dicesse essere Roma destinata a diventare sede d'un sacerdozio universale, che non avrebbe fine. Affermazione d'un afflato profetico. La religione di Roma poggiava sopra profondi sentimenti di rispetto alla divinità ed alla virtù. Tra le divinità venerate entravano le personificazioni delle virtù; e perciò furono innalzati tempi alla Pietà, alla Concordia, alla Pace, all'Onore alla Giustizia, alla Pudicizia, ecc.
Per questo scrittori greci palesarono grande ammirazione per la semplice ed austera religione romana, che si manifestava non solo nella sua mitologia, ma anche nelle pratiche di culto e nelle formule di preghiera.
Quando con il lusso ed i vizi penetrarono in Roma le religioni astruse e sensuali dell'oriente, allora si diffuse, specialmente nelle classi superiori, anche l'indifferentismo religioso.
Ne abbiamo un tipico esempio nella cinica e beffarda domanda di Pilato a Cristo: «Che cosa è la verità?» (Gv18, 38). E cominciò il declino della potenza romana.
*****
[1] T. LIVIO, Ab urbe condita, 2,12,9.
[2] «Nuptiae conjunctio maris et feminae, consortium omnis vitae, divini et humani iuris communicatio»; Digestae, 23,2,1.
[3] CICERONE, DeAruspicum responsis, 9,19.
[4] F. ALTHEIM, Epochen der römischen Geschichte, Klastermann, Frankfurt, 1934.
[5] «Deo parere libertas est»; SENECA, De Vita beata, 14,7.
[6] «Urbem templum sibi visam, senatum vero regum consessum esse»; L.A.FLORO, Epitome de Tito Livio, XIII,34.
Alle affermazioni di questo storico patavino, fanno riscontro le lodi che S. Agostino, specialmente nel Libro V del De Civitate Dei, tributa alle virtù civiche e private dei romani, più solleciti del pubblico bene che del personale vantaggio; pronti a dar la vita per la prosperità dello stato e la custodia della libertà; amanti della disciplina, alieni dal lusso e dall'avarizia. In premio di queste loro virtù Dio concesse ai romani l'impero del mondo.
A vigilare sui costumi pubblici e privati vi era in Roma un apposito magistrato: il Censore, istituto che non si riscontra presso nessun altro popolo.
La sorgente che alimentava questa probità di vita nel popolo romano era l'istituto familiare, mirabilmente sorretto da un senso tradizionale di rettitudine, di rispetto, di affetto e fiducia reciproca. Di qui l'ammirabile definizione del matrimonio data dal Diritto Romano: «È l'unione dell'uomo e della donna nel consorzio di tutta la vita, e nella comunione del diritto umano e divino»[2]. Perciò poteva giustamente Cicerone affermare che il vincolo familiare era il principio della città e quasi il semenzaio dello Stato.
Ecco perché suscitò uno scandalo il primo divorzio, che si vide in Roma nel declino della repubblica.
2. - Ma il fulcro più potente della grandezza di Roma fu il senso religioso in tutte le attività politiche e sociali. Sono notevoli le parole che Cicerone pronunciò nel Senato nel 56 a.C.: «Dobbiamo riconoscere che noi non abbiamo superato gli Ispani per il numero, né i Galli per la fortezza, né i Cartaginesi per l'astuzia, né i Greci per le arti, né infine gli stessi Italici e Latini per quella sagacia che è familiare e congenita a questa stirpe; bensì superammo le genti e le nazioni per la pietà e la religione, per la sapienza di riconoscere che ogni cosa è retta e governata dalla provvidenza degli dei» [3]. Valerio Massimo scrive: «Roma non ha mai dimenticato che tutto passa in sottordine di fronte alla religione... Perciò volentieri le civili autorità si sottomettevano alle autorità delle cose sante, persuase che non potessero governare le vicende umane, se non alla condizione di un 'intera e costante sottomissione alla potenza divina».
Nelle monete romane spesso è rappresentata la pietas religiosa personificata.
3. - I consoli rivendicavano la pietas come fonte di diritto per esigere la sottomissione dei popoli e l' obbedienza dei sudditi. Persuasi del volere divino che Roma riducesse il mondo ad unità sotto le sue leggi, consideravano come un atto di sacrilega superbia fare opposizione al suo dominio. Di qui secondo Virgilio il destino di Roma a «debellare superbos». Tutti i grandi romani che hanno lavorato alla realtà di Roma, da Numa Pompilio a Cesare Augusto, hanno avuto coscienza di essere strumenti della divinità. Ognuno di essi è come dotato di ispirazione ad ubbidire ad un imperativo divino.
Ed è proprio questo senso religioso, come afferma anche un moderno storico tedesco [4], che ha dato alla romanità nel suo insieme un irresistibile impeto. Certo, considerata l'ignoranza del vero Dio, la spiritualità religiosa romana era ben modesta, però questa religiosità non era una mascherata ipocrita, od una gelida commedia, come ha immaginato il razionalismo storico del protestante Mommsen, che perciò ha eliminato dalle fonti stesse della storiografia romana gran parte della loro spirituale profondità.
4. - I Romani sentivano di agire quali esecutori d'un volere divino, e da questa obbedienza a una volontà superiore essi hanno attinto quella forza irresistibile, che ha creato la grandezza di Roma. Quando Virgilio manifesta al popolo romano la missione di unificare il mondo sotto il suo impero, non annunzia un privilegio di una politica e morale superiorità, ma un comando divino da eseguirsi con forte ed indomita volontà.
Con la persuasione di essere gli esecutori di un mandato superiore, i romani credevano ogni guerra un'opera di giustizia, ogni conquista un ossequio ai voleri divini; e perciò la religione era considerata come la ragione determinante, e per conseguenza la base e la forza della grandezza di Roma. A questo proposito suona solenne l'affermazione di Seneca: «Ubbidire a Dio è libertà»[5]. Sono scultorie le parole di Cinea, il legato inviato dal re Pirro a Roma per sollecitare la pace. Interrogato al suo ritorno, quale impressione avesse avuto di Roma, rispose: «La città mi è sembrata un tempio, ed il senato un'assemblea di re»[6].
5. - Non c'è quindi meraviglia che un tribuno della plebe, come riporta Tito Livio, arringando i soldati, dicesse essere Roma destinata a diventare sede d'un sacerdozio universale, che non avrebbe fine. Affermazione d'un afflato profetico. La religione di Roma poggiava sopra profondi sentimenti di rispetto alla divinità ed alla virtù. Tra le divinità venerate entravano le personificazioni delle virtù; e perciò furono innalzati tempi alla Pietà, alla Concordia, alla Pace, all'Onore alla Giustizia, alla Pudicizia, ecc.
Per questo scrittori greci palesarono grande ammirazione per la semplice ed austera religione romana, che si manifestava non solo nella sua mitologia, ma anche nelle pratiche di culto e nelle formule di preghiera.
Quando con il lusso ed i vizi penetrarono in Roma le religioni astruse e sensuali dell'oriente, allora si diffuse, specialmente nelle classi superiori, anche l'indifferentismo religioso.
Ne abbiamo un tipico esempio nella cinica e beffarda domanda di Pilato a Cristo: «Che cosa è la verità?» (Gv18, 38). E cominciò il declino della potenza romana.
*****
[1] T. LIVIO, Ab urbe condita, 2,12,9.
[2] «Nuptiae conjunctio maris et feminae, consortium omnis vitae, divini et humani iuris communicatio»; Digestae, 23,2,1.
[3] CICERONE, DeAruspicum responsis, 9,19.
[4] F. ALTHEIM, Epochen der römischen Geschichte, Klastermann, Frankfurt, 1934.
[5] «Deo parere libertas est»; SENECA, De Vita beata, 14,7.
[6] «Urbem templum sibi visam, senatum vero regum consessum esse»; L.A.FLORO, Epitome de Tito Livio, XIII,34.