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IL MISTERO DI ROMA
CAPO XIV

ROMA NEL NUOVO TESTAMENTO

1. - Il Verbo Eterno apparve nel mondo rivestito della nostra umana natura, quando era già arrivata la pienezza dei tempi, come scrive S. Paolo. E questa pienezza dei tempi coincise con l'epoca, nella quale l'impero di Roma aveva raggiunto l'apice della sua potenza e splendore. Era il secolo di Cesare Ottaviano Augusto, ed il mondo tutto riposava per la prima volta sotto l'ombra maestosa della pace romana.
    Il Martirologio romano indicando il giorno della nascita di Gesù Cristo in Betlem, dopo aver notato gli anni allora ricorrenti di alcune epoche storiche e per ultimo ricordato che era l'anno 752 dalla fondazione di Roma e l'anno 42 dell'impero di Cesare Augusto, chiude l'elenco delle epoche storiche con la formula romanamente solenne:

«Toto Orbe in pace composito» Gesù Cristo Dio Eterno nacque in Betlem da Maria Vergine[1].

2. - Roma entrò nel Nuovo Testamento con l'incesso solenne d'un decreto imperiale, quello con cui si ordinava il censimento universale dell'Orbe (cfr. Lc 2,1-5). Fu per ubbidire a quel decreto, che la Vergine Maria prossima al parto, lasciò la sua raccolta casetta di Nazaret, e si incamminò a Betlem a circa 200 chilometri verso Sud, ove darà alla luce in una fredda grotta il Figlio dell'Altissimo. Così un decreto di Roma determinava la condizione, perché si adempisse la disposizione divina, che il Messia, il Redentore del mondo nascesse a Betlem, la città dell'antenato Re David.
    Paolo Orosio, storico del V secolo, scrive: «Cristo volle nascere all'epoca del censimento per essere iscritto nella lista; perché avendo Egli creato tutti gli uomini, si fece iscrivere uomo tra gli uomini. Anzi fece di più, avendo Egli creata la grandezza di Roma, volle appartenere ad essa, e mediante il censimento dimostrarsi suddito di Roma» [2].
    E questo Dio fatto uomo finché visse su la terra, rimase sempre suddito pacifico di Roma. Se profugo poté liberamente entrare in Egitto, rimanervi in pace, poi tornare senza ostacoli nella Palestina, dimorare nella Galilea, peregrinare per le finitime regioni della Fenicia, della Decapoli, della Traconitide, ecc., fu perché, abolite le frontiere tra popolo e popolo, ovunque andava o dimorava, era sempre sotto la sicura tutela della Pax Romana.

3. - Come il tempo dell'impero di Augusto segnò l'anno della nascita di Cristo, così il tempo dell'impero di Tiberio, come nota S.Luca, segnò l'inizio del suo messaggio evangelico (cfr. Lc 3,1).
    Percorrendo la Palestina annunziando il regno di Dio, fu interrogato un giorno se era lecito pagare il tributo a Cesare. Chiesto che gli si mostrasse una moneta del censo, domandò: «Di chi è questa immagine e l'iscrizione? Di Cesare, risposero» (Lc 20,24). E Gesù pronunziò la grande sentenza: «Rendete dunque a Cesare quel che è di Cesare, e a Dio, quello che è di Dio» (Lc 20,25). Con questo Egli dichiarava legittima e doverosa la sudditanza verso Roma.
    Questa romana autorità Egli la riconobbe anche dinanzi al rappresentante di Roma Ponzio Pilato, quando gli disse: «Tu non avresti nessuna potestà su di me, se non ti fosse data dall'alto» (Gv 19,11). Dall'alto: ossia da Roma, che ti ha conferito il governo di questa provincia, e da più in alto, ossia da Dio, che ha dato a Roma l'impero del mondo.
    Pilato strumento inconscio della giustizia divina, ma dominato dal fascino misterioso, che emanava da quel giudeo legato dinanzi al suo tribunale, a conclusione delle dichiarazioni fatte da Gesù disse: «Dunque tu sei Re!». E Gesù gli risponde: «Sì, tu l 'hai detto. Io sono Re. E per questo sono nato, e per questo sono venuto nel mondo per render testimonianza alla verità»(Gv 18,37).
    Come manifestò chiaramente la sua divinità nel Sinedrio dinanzi all'autorità religiosa d'Israele, così ora Gesù nel Pretorio manifesta la sua regalità dinanzi all'autorità politica di Roma.

4. - Israele aveva ripudiato il Messia promesso ai suoi Padri, e lo aveva consegnato al rappresentante di Roma. Roma che reggeva tutti i popoli, in nome di tutti e quindi in nome dell'umanità, pronunziava la sentenza di morte redentrice per tutti. E Gesù accettava con infinito amore la condanna di croce decretata da Roma per la redenzione della stessa Roma, che Egli aveva stabilito di render particolarmente sua, perché designata ad essere il centro e la capitale del suo regno in terra.

5. - Pendente Gesù dalla Croce, mentre pontefici, sacerdoti e capi del Sinedrio lo coprivano di derisioni e di insulti, il centurione romano, che presiedeva il manipolo dei soldati esecutori della sentenza di morte, contemplando quel crocifisso, egli primo tra i gentili e rappresentante di Roma conobbe la realtà nascosta sotto quel cadavere sanguinolente, e commosso esclamava:
«Veramente Costui deve essere il Figlio di Dio!» (cfr. Mt 27,54). Possiamo immaginare che Gesù, quantunque morto, abbia ripetuto dalla Croce l'elogio, che Egli un giorno aveva fatto d'un altro rappresentante di Roma, il centurione di Cafarnao: «Non ho trovato tanta fede in Israele!» (Lc 7,9).

6. - Dopo l'ascensione di Gesù al Cielo, è Pietro il suo Vicario in terra, che prende in mano la direzione della Chiesa. Destinato a stabilire il centro direttivo del regno di Dio a Roma, la Provvidenza lo mise presto, mentre dimorava ancora nella Palestina, in contatto con Roma. E questo contatto avvenne con un altro centurione romano di nome Cornelio, ufficiale della Coorte italica di stanza a Cesarea città della Palestina. E questo contatto fu combinato da Dio stesso avvertendo Pietro con una visione simbolica ed avvisando Cornelio per mezzo di un angelo. E Cornelio ed un numero dei suoi legionari divennero le primizie della gentilità accolta nella Chiesa di Cristo. E romane ed italiche furono queste primizie. E fu Pietro, il pastore supremo, ad accoglierle nell'ovile santo. Così Pietro cominciava la conquista di quella Roma, che col sangue doveva poi render sua per sempre.

7. - Verso Roma ancora tenne teso il suo gran cuore l'altro principe degli Apostoli, Paolo. In momenti critici della sua vita si appellò alla sua cittadinanza romana: «Civis romanus sum». Ed al tribuno Lisia che vantava la sua romanità acquistata con grande dispendio, Paolo con fierezza rispondeva: «Ed io son nato romano» (At 22,29). E per sentirsi più romano mutò il suo nome ebraico di Saulo nel nome romano di Paolo.
    Sin quasi all'inizio dei suoi viaggi apostolici, Paolo venne a contatto con un elevato rappresentante di Roma, Sergio Paolo, proconsole dell'isola di Cipro, uomo prudente, come lo dicono gli Atti Apostolici (cfr. At 13,7). E questo proconsole romano fu una delle grandi conquiste alla fede fatta da Paolo.

8. - In mezzo alle fatiche delle sue peregrinazioni apostoliche attraverso le provincie orientali dell'impero, Paolo tenne rivolto lo sguardo a Roma, ed anelava il momento di respirare la sua aria ed incontrarsi coi suoi abitanti. Ma sembrandogli che ritardasse troppo questo momento di arrivare a Roma di persona, ci volle arrivare intanto con una sua lettera.
    Fu un gesto singolare il suo. Egli aveva destinato sempre le sue epistole alle chiese da lui fondate, solo ai cristiani generati da lui stesso in Cristo o da qualche suo discepolo, come è il caso dell'epistola ai Colossesi, evangelizzati dal suo discepolo Epafra. Ma la cristianità di Roma non era stata formata da lui, a Roma non aveva ancora messo il piede. Non importa; egli sente che Roma gli appartiene in modo particolare, e lui appartiene a Roma. E perciò indirizza ai Romani la più lunga e poderosa delle sue epistole, ed in essa palesa la grande stima ed affetto che aveva per loro: «Per primo, rendo grazie al mio Dio mediante Gesù Cristo per tutti voi, perché la fede vostra è celebrata nell'universo mondo. E mi è testimonio Dio che incessantemente faccio memoria di voi, sempre chiedendo nelle mie orazioni, se in qualche modo mi si apra finalmente una buona strada, con la volontà di Dio, per venire a voi. Desidero infatti di vedervi, affinché possa comunicarvi qualche dono spirituale, onde siate confermati, cioè onde insieme ci consoliamo mediante la fede sia vostra che mia. Quanto a me sono pronto ad annunziare il Vangelo anche a voi che siete in Roma, perché non arrossisco del Vangelo» (Rm 1,8-16a).
    Nelle parole dell' Apostolo ci si sente la delicatezza ed il ritegno che gli imponeva il prestigio di Roma e della chiesa fondata dal Capo del Collegio Apostolico.

9. - Finalmente venne per Paolo l'occasione tanto desiderata di andare a Roma. Si trovava in Gerusalemme custodito dai legionari romani dentro il loro quartiere per difenderlo dalla rabbia furibonda dei Giudei, che cercavano di ucciderlo. Nella notte seguente gli apparve Gesù e gli disse: «Sii costante, come mi hai reso testimonianza in Gerusalemme, così dovrai rendermela a Roma» (At 23, 11).
    Era dunque Gesù stesso che gli ordinava di andare a Roma, e ve lo conduceva per una via che Paolo non aveva previsto. Già una prima volta Paolo, mentre era in Corinto, dai giudei fu trascinato innanzi al proconsole romano Gallione, reclamando a gran voce la sua condanna, come sacrilego propagatore d'una religione contraria alla loro legge. Il proconsole col buon senso giuridico di Roma rispose ai giudei: «"Se mi aveste portato l'accusa di una qualche iniquità o di un grave delitto, giustamente io avrei sostenuto le vostre parti; ma poiché si tratta di questioni di parole, di nomi e della legge vostra, sbrigatevela da voi. Io non voglio essere giudice di tali cose". E bruscamente li mandò via dal tribunale» (At 18,14-16).

10. - Similmente quando Paolo sotto buona scorta di legionari per difenderlo dalle insidie dei giudei, fu condotto da Gerusalemme a Cesarea, lo stesso sommo sacerdote Anania ed altri capi del Sinedrio corsero a Cesarea e portarono le loro accuse presso il preside romano Felice e poi presso il successore di lui Porzio Festo. Questi due magistrati romani trattarono Paolo con rispetto e cortesia; ma purtroppo nessuno dei due, pur riconoscendo l'innocenza di Paolo, osò di rimetterlo in libertà per riguardo dei Giudei. Si ripeteva il gesto di Pilato. E Paolo per sfuggire alle insidie giudaiche, avvalendosi della sua cittadinanza romana, appellò a Cesare. E Porzio Festo, gli disse: «Hai appellato a Cesare? Andrai a Cesare» (A t 25,12). E sotto la guardia d'un centurione della coorte Augusta di nome Giulio, lo inviò a Roma.
    Paolo intraprendeva il suo viaggio verso la tanto desiderata Roma; ma da prigioniero. Nel centurione Giulio egli trovò non una guardia, ma un amico devoto. Così Paolo anche prima di arrivarvi sperimentava il cuore di Roma nel centurione Giulio, e poi nei numerosi cristiani, che conosciuto il suo approdo al porto di Pozzuoli, da Roma gli andarono incontro sulla Via Appia, alcuni fino alle Tre Taverne a circa 50 km, l'attuale Cisterna, altri ancora più lontano, al Foro Appio; tanto era la stima e l'affetto, che i Romani nutrivano per Paolo, anche prima di conoscerlo di persona.

11. - Finalmente il grande Apostolo fu nella sua bramata Roma. E vi dimorò per due anni, prigioniero sì, ma libero di predicare il vangelo. Infatti la sua parola si sparse largamente sino a penetrare in tutto il Pretorio (ossia tra i pretoriani acquartierati al Castro Pretorio), come egli stesso scrive da Roma ai Filippesi, ai quali anche manda i saluti di tutti i santi, ossia dei cristiani di Roma, ma in modo particolare di quelli della casa di Cesare. Ed il Cesare di quel momento era Nerone. Così Paolo rendeva testimonianza a Cristo in Roma, come Cristo gli aveva ordinato, e suscitava fiducia nei fratelli, come scrive nella stessa lettera ai Filippesi, perché ardissero con più coraggio di propagare la parola di Dio (cfr. Fil 1,14).

12. - Finalmente dopo due anni di attesa, attesa feconda per l'opera apostolica di Paolo, l'alta corte di appello imperiale prosciolse Paolo dal cumulo d'accuse, che i rappresentanti della nazione giudaica gli avevano mosso contro.
    In quel momento Nerone era ancora il principe, che con romana saggezza reggeva le sorti dell'impero. Ma dopo, purtroppo, assai probabilmente per una psicosi paranoica, si trasformò, complice il contorno, in quel mostro pazzo e sanguinario, che la storia ci ha tramandato.
    Paolo, riacquistata la sua piena libertà di movimenti, compì il suo progettato viaggio nella Spagna, affinché la sua voce dai confini orientali ai termini occidentali risuonasse su tutta la vastità del mondo romano; perché, aveva scritto: «Fatto apostolo delle genti sono debitore verso tutti, sia greci che barbari, sia sapienti che insipienti» (Rm 1,14).

13. - Presto però tornò in Italia e fece una rapida corsa in oriente. Roma sua ultima meta lo aspettava. Ma anche questa volta vi arrivò prigioniero, e prigioniero di Nerone, lo squilibrato incendiario di Roma, il feroce carnefice di migliaia di vittime cristiane.
    Questa seconda venuta di Paolo a Roma si trasformò in dimora permanente; fu un definitivo domicilio acquistato e suggellato col suo sangue. Così Paolo, imporporando il suolo di Roma del suo sangue, ne fecondava la fede e rinsaldava il legame che ad essa lo univa.
    Al termine della lettera ai Romani, Paolo aveva scritto: «Pregate per me Dio, affinché arrivato una volta, per volere divino, con gioia in mezzo a voi, mi riposi in voi» (Rm 15,32). E volle riposarvi per sempre, per non separarsi più da quella Roma, che tanto aveva amato.
    Così mentre Pietro rappresentava in Roma l'unità della Chiesa di Cristo, Paolo vi rappresentava la Cattolicità; ed ambedue insieme l'apostolicità e la santità.

14. - Ma non solo i due principi degli Apostoli dovevano con la loro dimora e col loro sangue consacrare Roma a Cristo, ma anche il prediletto tra gli Apostoli, Giovanni, doveva essere un giorno presente in Roma per consacrarla non solo col profumo del suo verginale e tenero amore attinto dal petto del Maestro divino, e dall'intima convivenza con la Madre di Lui, ma anche con un martirio che, se non gli diede morte, ne fece però rifulgere l'eroica fortezza. Giustamente Tertulliano scrive: «Quanto felice è Roma dove Pietro crocifisso riproduce la passione del suo Maestro; dove Paolo decapitato è coronato con la morte di Giovanni Battista, ove Giovanni cosparso d'olio bollente, ne esce incolume, e viene relegato in un'isola»[3].

15. - Così Cristo con i suoi apostoli, coi suoi martiri penetrava nella intimità di Roma, e ne cominciava quella trasformazione, per la quale il suo regno doveva diventare l'erede di tutto ciò che la romanità aveva di grande e di augusto, e demolire tutto quanto di falso, d'impuro ne formava l'involucro di novella Babilonia, come l'aveva chiamata Pietro, scrivendo da Roma la sua prima epistola, e più volte S. Giovanni nell'Apocalisse.

*****

[1] Dalla Liturgia natalizia del Vetus Martyrologium Romanum.
[2] P. OROSIO, Historiarum Adversum Paganos, 7,3.
[3] TERTULLIANO, De Praescriptione Haereticorum, 36,3. La presenza di Giovanni a Roma è attestata ancora da S. GEROLAMO e dalla ininterrotta tradizione romana concretata intorno
a Porta Latina, ove sarebbe avvenuto il martirio, ricordato da una chiesa di antica costruzione.


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