IL MISTERO DI ROMA
CAPO X
LA VOCAZIONE DI ROMA
A CREARE L'UNITA' DEL MONDO
1. - Gesù venne al mondo per fondarvi il Regno di Dio, e tutti gli uomini di ogni regione e di ogni secolo sono chiamati a farne parte. Ma nonostante questa sua missione di carattere universale, Gesù non fu un cosmopolita od un apolide, Egli appartenne ad un popolo, il popolo ebreo. Volle avere una sua patria. E questa sua patria se la scelse in quel piccolo angolo di terra che si affaccia sul Mare Mediterraneo tra la Siria e l'Egitto: la Palestina.
A preparare l'ambiente politico, sociale, religioso e familiare della patria di Gesù, Dio chiamò il popolo di Abramo, gli Israeliti, i quali uscendo dalla terra d'Egitto occuparono la Palestina disperdendone gli aborigeni cananei. Per duemila anni le vicende storiche di questo popolo sono tutte proiettate verso una grande aspettativa futura: l'avvento del Messia. A Lui alludono i riti misteriosi del culto divino praticati nel tempio; di Lui parlano sotto veli più o meno trasparenti, i libri sacri; Lui annunziano i profeti nelle simboliche visioni del futuro. L'eco dell'aspettazione di Lui è diffusa presso tutte le genti attraverso la diaspora, ossia colonie, che questo popolo aveva sparso nei punti più cospicui del mondo allora conosciuto. Così Israele preparò nella Palestina una patria conveniente a Colui che doveva irradiarsi tra tutti i popoli, e costituire il Regno di Dio nel mondo. Ma poi Israele rinnegò questa sua missione ed, in punizione, fu disperso sulla faccia della terra.
2. - Gesù risalendo al Cielo non abbandonò la terra, ma vi rimase incorporato nella sua Chiesa, che è il suo Corpo Mistico. «Io sarò con voi tutti i giorni fino alla consumazione dei secoli» (Mt 28,20) disse Gesù ai suoi seguaci. Ma come per la sua realtà fisica ebbe una patria, così volle avere una patria per la sua realtà mistica. Per quella aveva scelto la Palestina, per questa scelse Roma.
La Chiesa iniziò la sua vita nel cenacolo di Gerusalemme sotto la direzione di Pietro, designato da Cristo qual suo Vicario. Ma poi Pietro portò il centro della Chiesa a Roma, e divenne romano; e così anche Cristo divenne romano nel suo Vicario e nella sua Chiesa. Perciò il Corpo Mistico di Cristo cioè la Chiesa, una, santa, cattolica, apostolica, è anche romana.
Come le vicende storiche del popolo d'Israele furono da Dio dirette a preparare l'ambiente adatto, in cui si doveva svolgere l'opera messianica di Cristo, così Dio diresse le vicende storiche di Roma, perché diventasse la sede adatta alla residenza ed attività del suo Vicario, e la sua Chiesa assumesse un nome di prestigio e risonanza universale, ed i popoli già rispettosi della romanità politica, agevolmente accettassero poi la romanità religiosa.
3. - Questa missione di Roma, a romanizzare Cristo nel Corpo Mistico della sua Chiesa, è affermata da tutta la tradizione cristiana. Qui ora ci basta riferire le parole che su questo argomento pronunziò Pio XI il 21 aprile 1924 in un suo discorso ad un pellegrinaggio polacco. Dopo aver ricordato la Polonia nella sua risurrezione e nella sua missione sempre cattolica, il Pontefice aggiunse: «In fatto di cristianesimo e di cattolicesimo questa è la legge: non si è pienamente cristiani, se non si è anche cattolici; e non si è pienamente cattolici, se non si è pur anche romani, ossia figli di quella Chiesa Romana, nella quale Cristo presente nel suo Vicario, si è fatto per questo anche Lui romano. E' vero che quando Dante appella Cristo romano, parla dell'altra Roma, della Roma celeste, ossia del Paradiso; ma resta pur sempre vero che da questa Roma terrestre Cristo cominciò ad essere romano, avendo destinato Roma a sua residenza nella persona del suo Vicario».
4. - La Provvidenza preparò Roma a la grande missione a cui l'aveva destinata. Nessuna città sia dell'antico che dell'evo moderno può reggere al confronto con il prestigio che Roma ha esercitato ed esercita tuttora nel mondo. Nell'antichità sorsero grandi imperi: l'assiro, il caldeo, il persiano, il greco; nell'evo moderno si formarono anche grandi monarchie ed imperi, come l'ispano, l'inglese, il russo, il germanico ecc. Ma tutti si formarono in nome e con la forza della nazione conquistatrice e dominatrice, e non nel nome di un'unica città. Invece, Roma solo nel suo nome ha conquistato e retto un immenso impero, che fece romano. Roma prima conquistò il Lazio e lo rese romano; poi l'Italia ed anch'essa fu romana. E con i Latini e con gli Italici conquistò il mondo; ma sempre in nome di Roma; e perciò il mondo non fu né latino né italico, ma romano. Ed un uomo di qualunque stirpe reputava a suo onore e vantaggio il poter dire: Civis romanus sum; sono cittadino romano.
Il sentimento del destino di Roma ad unificare il mondo nel suo nome era profondamente insito nell'animo dei romani; perciò il presagio di questa sua missione universale è conclamato da tutti gli antichi scrittori latini, e ripetuto da scrittori greci e da scrittori cristiani.
5. - L'Eneide di Virgilio, visione religiosa dei destini di Roma, poema prediletto da S. Agostino e da Dante, riporta come divino oracolo queste parole: «Ad essi (i Romani) spetta porre sotto legge l'orbe intero. Altre genti eccellono nelle lettere, nelle arti e nelle scienze, ma tu Romano, ricordati, che sei destinato a reggere con imperio i popoli. Queste sono le tue arti, imporre il regime della pace, esser mite coi sudditi, ed umiliare i superbi» [l].
Ovidio dalla facile vena poetica scrisse nei Fasti: «Alle altre genti è stato dato il mondo entro limitati confini, ma lo spazio dato all'Urbe romana è quello stesso dell'Orbe» [2].
Questo brillante motto di Ovidio fa qui da richiamo all'ultimo vate della musa pagana, Rutilio Namaziano, oriundo aquitano, il quale rivolgendosi a Roma dice: «O Roma, alle divise genti un'unica patria hai tu dato... Per te divenne Urbe quel che prima era stato Orbe» [3].
E Tibullo canta: «O Roma, il tuo nome è designato dal fato a reggere tutte le terre»[4].
I veri poeti sono spesso interpreti dei sentimenti dei popoli, quindi è ovvio riscontrare in quasi tutta la letteratura poetica latina espressioni simili a quelle citate.
6. - Ma questa persuasione della missione universale di Roma la troviamo espressa in molteplici modi presso i migliori rappresentanti della romanità, i quali ebbero l'intuitivo presentimento, che su Roma si librasse l'alone d'una misteriosa predestinazione d'origine sovrumana. Cicerone nella fine della VI Filippica afferma che il dominio universale di Roma è cosa voluta dai celesti. Plinio il Vecchio esalta l'unità dei popoli sotto la grande maestà della pace romana[5]. Vitruvio scrive: «Il volere divino ha posto la città del popolo romano in una regione ottima e temperata, affinché potesse arrivare all'acquisto dell'impero del mondo»[6]. Tacito saluta Roma, "culmine di tutte le cose": Urbs caput rerum[7].
7. - Ma non sono solo i romani a proclamare la grande missione dell'Urbe; sono anche i greci, quei greci orgogliosi della loro superiore cultura, divenuti sudditi di Roma.
Tra le altre testimonianze riporto qui quella dello storico Dionigi d'Alicarnasso nelle sue Antichità Romane (cap. I): «Roma giunse al dominio del mondo per la pietà sua, per la giustizia e per le altre virtù, e non per caso o capriccio della sorte; e però se i miei compatrioti greci sono stati assoggettati da Roma questo lo voleva la ragione, essendo legge naturale che i migliori comandino a quelli che son da meno. Infatti Roma sin dall'origine, come dice la storia, produsse in copia tali grandi uomini, quali non produsse mai barbara o greca città: né più pii, né più giusti, né più savi nel vivere, né più segnalati nelle armi».
Infatti i greci quantunque si reputassero per cultura superiori ai romani, furono tra i più fedeli e pacifici sudditi di Roma. Ed anche quando la sede dell'impero fu trasferita a Bisanzio, ribattezzata Costantinopoli, i greci non rinnegarono la romanità dell'impero, e consideravano Costantinopoli come una nuova Roma. E se l'occidente fu detto latino e l'oriente greco, l'appellativo di romano rimase pur sempre comune ad ambedue le parti dell'impero.
8. - Ma oltre all'unità, a cui il mondo universo doveva comporsi sotto l'imperio di Roma, era diffuso nelle coscienze il sentimento, che questa unità sarebbe stata perenne, perché eterna era Roma. L'appellativo di Roma Eterna si trova già in Tibullo, in Ausonio, Ammiano Marcellino, in Frontino ecc. Virgilio faceva predire dal Nume questa eternità di Roma: «Ad essi (i romani) non pongo confini di spazio e di tempo; a loro ho dato un impero senza fine» [8].
Sulle monete degli imperatori Adriano ed Antonino Pio si vede impressa la figura di Roma amazzonica, seduta maestosamente in trono con la scritta: Roma Aeterna.
Questa eternità di Roma era talmente radicata tra tutti i popoli che si sono trovate nell'Asia Minore epigrafi nelle quali, a significare che il contenuto della lapide valeva in perpetuo, si usa la frase: Finché durerà Roma.
9. - I fatti meravigliosi narrati sull'origine di Roma, quantunque in parte leggendari, sono un documento psicologico di una intima persuasione, che la fondazione dell'Urbe era preordinata ad una missione universale e compiuta per un intervento della divinità. L'intuizione profonda che Roma fosse uno strumento nelle mani degli dei, anzi una Dea essa stessa, la ritroviamo anche espressa da scrittori greci come Apollonio di Tiana, Plutarco di Cheronea, in Plotino, Porfirio, Giamblico ecc. Marziale scrive: «O Roma, dea delle terre e delle genti, nulla è a te uguale, nulla secondo» [9].
Ed il già ricordato Rutilio Namaziano così interpella Roma: «Ascolta, o bellissima del mondo regina, o Roma, assisa tra siderei poli, ascolta nutrice di uomini, genitrice di dei... A te inneggiamo e sempre a te inneggeremo, finché vivremo»[10].
Magno Ausonio canta: «Prima tra le città, domicilio degli dei, aurea Roma!». E ricordata la sua patria Burdigala (Bordeaux), esclama: «Questa è la patria mia; ma Roma ha superato tutte le patrie, perciò amo Burdigala, ma venero Roma»[11].
10. - Quindi non c'è da stupire che si giungesse a costituire sul Campidoglio un'area dedicata al Genio Urbis Romae e su l'alto della Velia, di fronte al Colosseo, un gran tempio in onore di Venere e di Roma, del quale si vede ancora in piedi l'abside e molte colonne del peristilio.
Era la manifestazione del sentimento che a Roma si dovesse prestare un culto religioso come ad una divinità. E templi in suo onore furono pure innalzati in molte provincie dell'impero. Un tal sentimento lo esprime il grave Cicerone, quando chiama Roma luce del mondo e rifugio di tutte le genti e scrive all'amico Celio Rufo: «L'Urbe, l'Urbe, venera, o mio Rufo, e vivi nella sua luce!» [13].
*****
[1] «Tu regere imperio populos, Romane, memento, hae tibi erunt artes: pacisque imponere morem, parcere subiectis, et debellare superbos»; VIRGILIO, Eneide, 6, 851-853.
[2] «Gentibus est aliis tellus data limite certo, Romanae spatium est urbis et orbis idem»; OVIDIO, Fasti, 2, 683.
[3] «Fecisti patriam diversis gentibus unam... Urbem fecisti quod prius Orbis erat»; NAMAZIANO, De reditu suo 1,63.66.
[4] «Roma, tuum nomen terris fatale regendis»; TIBULLO, Elegie, 2, 5, 57.
[5] PLINIO IL VECCHIO, Naturalis Historia, XIV, 1-27.
[6] VITRUVIO, De Architectura, 6,1,11.
[7] TACITO, Historiae, 11,32.
[8] «His ego nec metas rerum nec tempora pono, imperium sine fine dedi»; VIRGILIO, Eneide 1, 278.
[9] «Terrarum dea gentiumque, Roma, cui par est nihil, et nihil secundum»; MARZIALE, Epigrammi 12, 8,1-2.
[10] «Exaudi regina tui pulcherrima mundi - inter sidereos recepta polos - exaudi nutrix hominum genetrixque deorum... Te canimus, semperque, sinent duro fata, canemus»; NAMAZIANO, De reditu suo, 1,47-51.
[11] «Prima urbes inter, divum domus, aurea Roma... Haec patria est; patrias sed Roma supervenit omnes. Diligo Burdigalam, Romam colo»; Ausonio, Ordo nobilium urbium.
[12] SERVIO, In Vergilii Aneidos, 2,351.
[13] «Urbem Urbem, mi Rufe cole, et in ista luce vive!»; CICERONE, Epistulae ad familiares, II,12.
A preparare l'ambiente politico, sociale, religioso e familiare della patria di Gesù, Dio chiamò il popolo di Abramo, gli Israeliti, i quali uscendo dalla terra d'Egitto occuparono la Palestina disperdendone gli aborigeni cananei. Per duemila anni le vicende storiche di questo popolo sono tutte proiettate verso una grande aspettativa futura: l'avvento del Messia. A Lui alludono i riti misteriosi del culto divino praticati nel tempio; di Lui parlano sotto veli più o meno trasparenti, i libri sacri; Lui annunziano i profeti nelle simboliche visioni del futuro. L'eco dell'aspettazione di Lui è diffusa presso tutte le genti attraverso la diaspora, ossia colonie, che questo popolo aveva sparso nei punti più cospicui del mondo allora conosciuto. Così Israele preparò nella Palestina una patria conveniente a Colui che doveva irradiarsi tra tutti i popoli, e costituire il Regno di Dio nel mondo. Ma poi Israele rinnegò questa sua missione ed, in punizione, fu disperso sulla faccia della terra.
2. - Gesù risalendo al Cielo non abbandonò la terra, ma vi rimase incorporato nella sua Chiesa, che è il suo Corpo Mistico. «Io sarò con voi tutti i giorni fino alla consumazione dei secoli» (Mt 28,20) disse Gesù ai suoi seguaci. Ma come per la sua realtà fisica ebbe una patria, così volle avere una patria per la sua realtà mistica. Per quella aveva scelto la Palestina, per questa scelse Roma.
La Chiesa iniziò la sua vita nel cenacolo di Gerusalemme sotto la direzione di Pietro, designato da Cristo qual suo Vicario. Ma poi Pietro portò il centro della Chiesa a Roma, e divenne romano; e così anche Cristo divenne romano nel suo Vicario e nella sua Chiesa. Perciò il Corpo Mistico di Cristo cioè la Chiesa, una, santa, cattolica, apostolica, è anche romana.
Come le vicende storiche del popolo d'Israele furono da Dio dirette a preparare l'ambiente adatto, in cui si doveva svolgere l'opera messianica di Cristo, così Dio diresse le vicende storiche di Roma, perché diventasse la sede adatta alla residenza ed attività del suo Vicario, e la sua Chiesa assumesse un nome di prestigio e risonanza universale, ed i popoli già rispettosi della romanità politica, agevolmente accettassero poi la romanità religiosa.
3. - Questa missione di Roma, a romanizzare Cristo nel Corpo Mistico della sua Chiesa, è affermata da tutta la tradizione cristiana. Qui ora ci basta riferire le parole che su questo argomento pronunziò Pio XI il 21 aprile 1924 in un suo discorso ad un pellegrinaggio polacco. Dopo aver ricordato la Polonia nella sua risurrezione e nella sua missione sempre cattolica, il Pontefice aggiunse: «In fatto di cristianesimo e di cattolicesimo questa è la legge: non si è pienamente cristiani, se non si è anche cattolici; e non si è pienamente cattolici, se non si è pur anche romani, ossia figli di quella Chiesa Romana, nella quale Cristo presente nel suo Vicario, si è fatto per questo anche Lui romano. E' vero che quando Dante appella Cristo romano, parla dell'altra Roma, della Roma celeste, ossia del Paradiso; ma resta pur sempre vero che da questa Roma terrestre Cristo cominciò ad essere romano, avendo destinato Roma a sua residenza nella persona del suo Vicario».
4. - La Provvidenza preparò Roma a la grande missione a cui l'aveva destinata. Nessuna città sia dell'antico che dell'evo moderno può reggere al confronto con il prestigio che Roma ha esercitato ed esercita tuttora nel mondo. Nell'antichità sorsero grandi imperi: l'assiro, il caldeo, il persiano, il greco; nell'evo moderno si formarono anche grandi monarchie ed imperi, come l'ispano, l'inglese, il russo, il germanico ecc. Ma tutti si formarono in nome e con la forza della nazione conquistatrice e dominatrice, e non nel nome di un'unica città. Invece, Roma solo nel suo nome ha conquistato e retto un immenso impero, che fece romano. Roma prima conquistò il Lazio e lo rese romano; poi l'Italia ed anch'essa fu romana. E con i Latini e con gli Italici conquistò il mondo; ma sempre in nome di Roma; e perciò il mondo non fu né latino né italico, ma romano. Ed un uomo di qualunque stirpe reputava a suo onore e vantaggio il poter dire: Civis romanus sum; sono cittadino romano.
Il sentimento del destino di Roma ad unificare il mondo nel suo nome era profondamente insito nell'animo dei romani; perciò il presagio di questa sua missione universale è conclamato da tutti gli antichi scrittori latini, e ripetuto da scrittori greci e da scrittori cristiani.
5. - L'Eneide di Virgilio, visione religiosa dei destini di Roma, poema prediletto da S. Agostino e da Dante, riporta come divino oracolo queste parole: «Ad essi (i Romani) spetta porre sotto legge l'orbe intero. Altre genti eccellono nelle lettere, nelle arti e nelle scienze, ma tu Romano, ricordati, che sei destinato a reggere con imperio i popoli. Queste sono le tue arti, imporre il regime della pace, esser mite coi sudditi, ed umiliare i superbi» [l].
Ovidio dalla facile vena poetica scrisse nei Fasti: «Alle altre genti è stato dato il mondo entro limitati confini, ma lo spazio dato all'Urbe romana è quello stesso dell'Orbe» [2].
Questo brillante motto di Ovidio fa qui da richiamo all'ultimo vate della musa pagana, Rutilio Namaziano, oriundo aquitano, il quale rivolgendosi a Roma dice: «O Roma, alle divise genti un'unica patria hai tu dato... Per te divenne Urbe quel che prima era stato Orbe» [3].
E Tibullo canta: «O Roma, il tuo nome è designato dal fato a reggere tutte le terre»[4].
I veri poeti sono spesso interpreti dei sentimenti dei popoli, quindi è ovvio riscontrare in quasi tutta la letteratura poetica latina espressioni simili a quelle citate.
6. - Ma questa persuasione della missione universale di Roma la troviamo espressa in molteplici modi presso i migliori rappresentanti della romanità, i quali ebbero l'intuitivo presentimento, che su Roma si librasse l'alone d'una misteriosa predestinazione d'origine sovrumana. Cicerone nella fine della VI Filippica afferma che il dominio universale di Roma è cosa voluta dai celesti. Plinio il Vecchio esalta l'unità dei popoli sotto la grande maestà della pace romana[5]. Vitruvio scrive: «Il volere divino ha posto la città del popolo romano in una regione ottima e temperata, affinché potesse arrivare all'acquisto dell'impero del mondo»[6]. Tacito saluta Roma, "culmine di tutte le cose": Urbs caput rerum[7].
7. - Ma non sono solo i romani a proclamare la grande missione dell'Urbe; sono anche i greci, quei greci orgogliosi della loro superiore cultura, divenuti sudditi di Roma.
Tra le altre testimonianze riporto qui quella dello storico Dionigi d'Alicarnasso nelle sue Antichità Romane (cap. I): «Roma giunse al dominio del mondo per la pietà sua, per la giustizia e per le altre virtù, e non per caso o capriccio della sorte; e però se i miei compatrioti greci sono stati assoggettati da Roma questo lo voleva la ragione, essendo legge naturale che i migliori comandino a quelli che son da meno. Infatti Roma sin dall'origine, come dice la storia, produsse in copia tali grandi uomini, quali non produsse mai barbara o greca città: né più pii, né più giusti, né più savi nel vivere, né più segnalati nelle armi».
Infatti i greci quantunque si reputassero per cultura superiori ai romani, furono tra i più fedeli e pacifici sudditi di Roma. Ed anche quando la sede dell'impero fu trasferita a Bisanzio, ribattezzata Costantinopoli, i greci non rinnegarono la romanità dell'impero, e consideravano Costantinopoli come una nuova Roma. E se l'occidente fu detto latino e l'oriente greco, l'appellativo di romano rimase pur sempre comune ad ambedue le parti dell'impero.
8. - Ma oltre all'unità, a cui il mondo universo doveva comporsi sotto l'imperio di Roma, era diffuso nelle coscienze il sentimento, che questa unità sarebbe stata perenne, perché eterna era Roma. L'appellativo di Roma Eterna si trova già in Tibullo, in Ausonio, Ammiano Marcellino, in Frontino ecc. Virgilio faceva predire dal Nume questa eternità di Roma: «Ad essi (i romani) non pongo confini di spazio e di tempo; a loro ho dato un impero senza fine» [8].
Sulle monete degli imperatori Adriano ed Antonino Pio si vede impressa la figura di Roma amazzonica, seduta maestosamente in trono con la scritta: Roma Aeterna.
Questa eternità di Roma era talmente radicata tra tutti i popoli che si sono trovate nell'Asia Minore epigrafi nelle quali, a significare che il contenuto della lapide valeva in perpetuo, si usa la frase: Finché durerà Roma.
9. - I fatti meravigliosi narrati sull'origine di Roma, quantunque in parte leggendari, sono un documento psicologico di una intima persuasione, che la fondazione dell'Urbe era preordinata ad una missione universale e compiuta per un intervento della divinità. L'intuizione profonda che Roma fosse uno strumento nelle mani degli dei, anzi una Dea essa stessa, la ritroviamo anche espressa da scrittori greci come Apollonio di Tiana, Plutarco di Cheronea, in Plotino, Porfirio, Giamblico ecc. Marziale scrive: «O Roma, dea delle terre e delle genti, nulla è a te uguale, nulla secondo» [9].
Ed il già ricordato Rutilio Namaziano così interpella Roma: «Ascolta, o bellissima del mondo regina, o Roma, assisa tra siderei poli, ascolta nutrice di uomini, genitrice di dei... A te inneggiamo e sempre a te inneggeremo, finché vivremo»[10].
Magno Ausonio canta: «Prima tra le città, domicilio degli dei, aurea Roma!». E ricordata la sua patria Burdigala (Bordeaux), esclama: «Questa è la patria mia; ma Roma ha superato tutte le patrie, perciò amo Burdigala, ma venero Roma»[11].
10. - Quindi non c'è da stupire che si giungesse a costituire sul Campidoglio un'area dedicata al Genio Urbis Romae e su l'alto della Velia, di fronte al Colosseo, un gran tempio in onore di Venere e di Roma, del quale si vede ancora in piedi l'abside e molte colonne del peristilio.
Era la manifestazione del sentimento che a Roma si dovesse prestare un culto religioso come ad una divinità. E templi in suo onore furono pure innalzati in molte provincie dell'impero. Un tal sentimento lo esprime il grave Cicerone, quando chiama Roma luce del mondo e rifugio di tutte le genti e scrive all'amico Celio Rufo: «L'Urbe, l'Urbe, venera, o mio Rufo, e vivi nella sua luce!» [13].
*****
[1] «Tu regere imperio populos, Romane, memento, hae tibi erunt artes: pacisque imponere morem, parcere subiectis, et debellare superbos»; VIRGILIO, Eneide, 6, 851-853.
[2] «Gentibus est aliis tellus data limite certo, Romanae spatium est urbis et orbis idem»; OVIDIO, Fasti, 2, 683.
[3] «Fecisti patriam diversis gentibus unam... Urbem fecisti quod prius Orbis erat»; NAMAZIANO, De reditu suo 1,63.66.
[4] «Roma, tuum nomen terris fatale regendis»; TIBULLO, Elegie, 2, 5, 57.
[5] PLINIO IL VECCHIO, Naturalis Historia, XIV, 1-27.
[6] VITRUVIO, De Architectura, 6,1,11.
[7] TACITO, Historiae, 11,32.
[8] «His ego nec metas rerum nec tempora pono, imperium sine fine dedi»; VIRGILIO, Eneide 1, 278.
[9] «Terrarum dea gentiumque, Roma, cui par est nihil, et nihil secundum»; MARZIALE, Epigrammi 12, 8,1-2.
[10] «Exaudi regina tui pulcherrima mundi - inter sidereos recepta polos - exaudi nutrix hominum genetrixque deorum... Te canimus, semperque, sinent duro fata, canemus»; NAMAZIANO, De reditu suo, 1,47-51.
[11] «Prima urbes inter, divum domus, aurea Roma... Haec patria est; patrias sed Roma supervenit omnes. Diligo Burdigalam, Romam colo»; Ausonio, Ordo nobilium urbium.
[12] SERVIO, In Vergilii Aneidos, 2,351.
[13] «Urbem Urbem, mi Rufe cole, et in ista luce vive!»; CICERONE, Epistulae ad familiares, II,12.